di Ignazio Piano
Considerando che vorrei argomentare, seppure di riflesso, sull’invasione eolica in Sardegna, l’avverbio del titolo potrebbe risultare un inutile orpello; altro che felicemente, d’arrabbiarsi tocca… e anche molto! Ma si dà il caso che noi sardi, quando facciamo gli arrabbiati, non concludiamo nulla e non incutiamo tutto questo timore. Invece, si dà ancora il caso che un popolo felice di se stesso – che non significa senza difetti o senza problemi (non esiste il popolo perfetto) – sia, in partenza, equipaggiato dell’ingrediente fondamentale – quindi più efficace – per affrontare le difficoltà che la storia proporziona.
La felicità, quella normale, dà fermezza, lucidità nell’argomentare, si sostiene su atteggiamenti non violenti quindi ferrei (la non violenza attiva è un’arma inattaccabile in sé), non molla, conferisce dignità, serietà e solidità alle azioni di tutela, sa rischiare, sopportare e soffrire quando la posta in gioco è alta.
La Sardegna, lo sappiamo, è da decenni una colonia dello Stato italiano (così come lo Stato italiano lo è dell’UE, e così via in crescendo). Asserisco ciò con rispetto verso il popolo italiano (i cittadini comuni) che non ha responsabilità circa certi atteggiamenti dei Governi.
Le scelte coloniali dello Stato italiano – in combutta con i remissivi e complici governi isolani – hanno spesso provocato indignazione in molti di noi. Tale indignazione però non ha mai prodotto soluzioni sostanziali: non ha bloccato le servitù militari, i giochi di guerra, i vai e vieni di eserciti internazionali che testano i loro prodotti sul nostro suolo, le servitù dell’industria chimica, le scorie nucleari, gli immensi e sospetti incendi stagionali, i fanghi reflui e le mondezze varie che, periodicamente, quivi approdano.
Affermo tutto ciò nel rispetto e nell’ammirazione verso quei cittadini sardi che, individualmente o in conformazioni, reagirono e reagiscono con dignità e determinazione a detto colonialismo (per citarne alcuni: i “Fatti di Pratobello”, il signor Egidio Marras, i coraggiosi cittadini delle aree militari che stimolarono le indagini del dott. Fiordalisi sul caso “Sindrome di Quirra”, i gruppi che in questo momento si stanno muovendo contro le pale…)
Sta di fatto, però, che a livello di popolo abbiamo sempre dimostrato remissività e non-compattezza. Quale la causa? Senza pretesa di esibire certezze, penso si tratti di mancanza di felicità.
Siamo un popolo felice? Siamo felici di abitare un’isola con tutti i suoi svantaggi e… VANTAGGI? Siamo felici della nostra storia? Siamo coscienti che le tappe storiche di più alta civiltà coincidono con i momenti in cui ci governammo da soli? Siamo coscienti della nostra originalità? Siamo coscienti della nostra enorme creatività, quando scevri da condizioni di oppressione? Siamo felici nel sapere che abbiamo una lingua che da millenni sa esprimere con molteplici e forbiti termini (che sempre più stiamo dimenticando) tutti gli aspetti della vita umana (sentimenti, arte, canto, poesia, sacro, amore, vita quotidiana, professioni, mestieri, leggi, politica, scienza, medicina…)? Siamo coscienti che la nostra cultura musicale e poetica, di altissimo livello, è vastissima e ricca di stili e metriche elaboratissimi, assai studiati da esperti in materia a livello internazionale? Siamo coscienti dell’elevata civiltà prenuragica e nuragica? Siamo al corrente che i Giudicati – Stati a regime semi-democratico – erano le nazioni più avanzate dell’Europa dell’epoca? Siamo coscienti che la famosa “Carta de Logu”, redatta in lingua sarda, forgiata dal grande Mariano IV (e aggiornata dai figli Ugone ed Eleonora), che già contemplava la tutela delle donne e dei minori, fu uno dei codici legislativi più evoluti dell’epoca ed è, tuttora, studiato in varie università del mondo? Siamo coscienti che, come affermò il Muratori, la lingua sarda fu lingua nazionale già nel medio evo? Siamo coscienti che nel passato i nostri avi difesero sempre con decisione la loro libertà e dignità di popolo e che la remissività è cosa dei nostri tempi? Potrei continuare all’infinito enumerando tutte le stratificazioni di elementi che nel corso dei secoli sono confluiti in una civiltà ricca e tutta da riscoprire, come per fortuna sta in parte accadendo.
Certamente, la nostra storia enumera anche periodi difficili – che, in pratica, coincidono con le durissime dominazioni esterne – fatti di scelte sbagliate e di regresso; ma gli alti e bassi storici sono cosa di tutti i popoli e non solo nostri.
Probabilmente, la nostra scarsa felicità come popolo, è la conseguenza di un altro stato d’animo strutturale: la mancanza di autostima etnica. Sicuramente, l’umiliazione culturale subita dal nostro popolo, da fine Ottocento in qua, forgiata a tavolino in Italia, Francia… da antropologie positiviste basate su equivoci parametri umanistici e scientifici (si pensi ai vari: Lombroso, Niceforo, d’Hercout, Letourneau ed altri), ancora pesa sulla nostra autopercezione.
Tale scombussolamento ha prodotto pietosi surrogati di orgoglio etnico che, in pratica, non servono a niente se non ad aumentare l’astrazione dai problemi reali. Quell’obsoleto senso di “orgoglio sardo” (che non so in che cosa consista) che tanto piace ad alcuni, in quanto effimero ed artificiale, non ha mai svolto nessun ruolo di tutela. I vari furbetti di turno, che qui approdano, se ne infischiano del nostro orgoglio liquido, e non poche volte lo manipolano a nostro scapito.
La nostra autostima è talmente tale e paradossale che, a volte, ci vergogniamo addirittura di ciò di cui dovremmo andar fieri o di ciò che abbiamo “in più” (penso al bilinguismo, all’unicità-originalità di molti aspetti geografici-culturali, all’insularità, spesso da noi vista come svantaggio, mentre i nostri avi prenuragici, nuragici e giudicali ne ricavavano benefici enormi, considerando il mare come immensa rete autostradale per favorire interscambi culturali e commerciali con altre civiltà). Persino il centro dell’isola, già qualche millennio fa, era luogo di probabili empori internazionali, ove le varie loquele mediterranee si intrecciavano in arricchenti interscambi (contrariamente a quanto si possa pensare, il centro della Sardegna non fu mai isolato: seppe mantenere un equilibrio tra l’accoglimento e la metabolizzazione di elementi culturali esterni – linguistici, letterari, musicali, culturali in genere – e la tutela della propria identità).
Oggi più che mai la nostra accentuata alterità potrebbe essere motivo di elevata soddisfazione etnica e di sana antropologia contro-corrente, in quest’occidente ove si cerca in tutti i modi di omologare-ibridare etnie e singoli (unicità e alterità sono costitutivi antropologici essenziali, imprescindibili per favorire autentica comunione tra gli uomini e tra i popoli).
La nostra capacità di valorizzarci da noi stessi è fragile e sottomessa alle opinioni esterne. Spesso, afflitti da un latente senso di inferiorità, abbiamo bisogno di una cultura vicaria che ci offra ogni tanto dei contentini: è risaputo il nostro penoso orgoglio quando negli scenari italiani sale alla ribalta qualche personaggio nostrano; al contrario, la nostra permalosità si esaspera quando qualche ignorantello televisivo lancia sciocche frasette (in)offensive. Tuttavia, di fronte a grandi soprusi ci diluiamo e lasciamo fare: tusturrudus e murrungiosus me in donnia tontesa e modditzosus e timarosus me is chistiois de importu mannu!
Come già accennato, anche l’insularità è da noi interpretata quasi al rovescio. «Isolani e isolati!» dicono alcuni, piangendosi addosso. Il mare che ci circonda si ergerebbe quale barriera, impedendoci di… uscire. Come già espresso sopra, i nostri avi non la vedevano così: con le loro navi si muovevano, sovrani, dappertutto… eppoi tornavano a casa loro. Non v’erano barriere per loro, ma molteplici opportunità, in uscita e in entrata. Oggi noi non siamo più sovrani… tutto qui! Perciò, il mare fa da barriera solo in andata: impedisce la giusta esportazione di mille prodotti nostrani, ma agevola l’importazione-imposizione di tanti alimenti ed elementi costosi e inutili. La vera barriera, lo sappiamo, si trova nella nostra mente, nelle strutture ingiuste (gestite da altri). Il mare in se stesso non c’entra niente. Anche i montanari trentini, fino a cento anni fa, vivevano isolati, pur non essendo circondati dall’acqua e abitando all’interno della zolla europea. Semplicemente la nostra isola è gestita in maniera impropria, non ha la scarpa adatta al proprio piede… tutto qui. Per il resto, è una terra ricchissima di risorse (incluse quelle idriche) che usate in modo saggio e parsimonioso, gioverebbero al giusto benessere di chi la abita. Un popolo che si vuole bene sa, infatti, costruire anche la propria economia; non un’economia a qualsiasi costo, ma in armonia con il rispetto e la crescita della bellezza della propria dignità, delle proprie geografie, della propria identità culturale, perché quando l’economia divorzia dalla bellezza, crea disastri e annulla se stessa: il fallimento a 360° della chimica pesante sarda ne è un tipico esempio (l’ecosistema della Sardegna, per la sua condizione insulare, va gestita col bilancino dell’orefice).
Sarà fondamentale, quindi, decidere di stimarci da noi stessi: la nostra storia e cultura, appropriatamente riscoperta, ha tutte le carte in regola in proposito. E se gli altri ci ignorano… “Non ti curar di lor ma guarda e passa” (cf. Inferno, Canto XV). Un uomo o una donna affascinanti sanno di esserlo anche se nessuno se ne accorge, e si compiacciono della propria bellezza “a testa alta e incuranti” anche se alcuni, forse invidiosi o semplicemente ignoranti, cercano di gridargli dietro il contrario! Tra l’altro – non sia di troppo chiarirlo – bisogna essere profondi per apprezzare la fibrosa alterità della nostra storia e cultura, e oggi la profondità non è troppo di moda nella decadente civiltà occidentale.
Questa è la nostra grande sfida epocale: riscoprirci come popolo degno di stima e… stimarci da noi stessi. Il resto sarà una conseguenza. Certo non si tratterà di una passeggiata facile e immediata; l’importante è sapere che si può.
Anche il rapporto con gli altri popoli, italiani in primis, sarà più bello e interessante quando stimeremo “noi stessi da noi stessi”. Quando impari ad apprezzare te stesso e il tuo popolo, apprendi per analogia ad apprezzare gli altri e gli altri popoli. Più valorizzi te stesso… più ti apri agli altri nel modo giusto, non per mendicare, ma per dare e ricevere nella stima della tua e altrui cultura (ci si è mai chiesti, per esempio, perché i giovani cultori della lingua sarda spesso sono poliglotti?). Tutto ciò, è evidente, non ha niente a che vedere con sciovinismi o robacce del genere… tutto il contrario.
Visto che cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, mi auguro fermamente che anche dalle attuali mobilitazioni di coraggiosi cittadini contro le pale, possa scaturire entusiasmo, fiducia in se stessi, autostima, convinzione che la storia di un popolo va sostanzialmente tracciata da quello stesso popolo.
A questo punto, devo doverosamente aggiungere il mio riconoscimento e incoraggiamento verso i tanti interessanti fermenti di riscoperta culturale-linguistica e di tutela archeologica-ecologica del territorio (nonché dei vari mestieri tradizionali armonizzati con un’adeguata tecnologia e industria). Alcuni Comuni stanno lavorando veramente bene! L’augurio è che queste iniziative locali possano sempre più confluire verso una presa di coscienza collettiva.
In chiusura, potremmo riproporci il quesito del proemio: ma che c’entra tutta ‘sta teoria con la concreta e urgente emergenza delle pale eoliche? La risposta, almeno per me, è semplice: tutto, c’entra tutto. Se non riacquisteremo la nostra autostima etnica, alle varie servitù e alle pale si succederanno altre invasioni… eppoi altre… fino a sloggiarci o estinguerci. Addirittura?! Chissà! L’ipotesi non è troppo inverosimile. Servirà sempre più spazio nello “sgabuzzino degli attrezzi e dei rifiuti” e i nostri corpi, le nostre case, il nostro bestiame, le nostre coltivazioni, i nostri gioielli di famiglia… saranno motivo d’ingombro.
Volendo chiosare con un po’ di fantasia: ci siamo mai chiesti quante persone emigrerebbero di corsa a prendere dimora in Ichnusa se noi sardi decidessimo di abbandonarla in massa? Azzardo una riposta: molti, decisamente molti e con molti progetti in testa. Ma noi siamo un popolo intelligente, pieno di risorse e creatività, con tutte le carte, se vogliamo riappropriarcene, per restare a casa e forgiare cose nuove, belle e buone.
Ogni popolo è patrimonio dell’umanità. A noi è dato l’onore e l’onere di dare dignità a questa porzione di tale patrimonio: noi stessi. Se percorreremo questo cammino, il futuro non sarà delle pale, ma degli alberi, quegli alberi che fino ad alcune centinaia di anni fa formavano quasi un bosco unico nell’isola.