di Ingrid Atzei
Non mi appassionano molto le versioni scurrili della cosiddetta arte contemporanea, la quale senza colpa alcuna pare essere l’intestataria privilegiata di tutte quelle espressioni tra il grottesco e il ridicolo che diversamente nessuno si filerebbe. Ma il/la Pulcinella di Gaetano Pesce installato/a a Napoli pare proprio supplicare per grazia di ragione qualche riflessione.
Intanto parliamo brevemente dell’impianto mitologico sul quale la cosiddetta opera poggia poiché ne “nobiliterebbe” la ragione artistica: Pulcinella è maschera ermafrodita, rappresenta la semplicità ottusa che si può esprimere con una parafrasi colorita e pare incarnare qualcosa di molto vicino al ciclo delle stagioni, delle nascite e delle morti. Fin qui, diciamo che abbiamo vino per bevitori.
L’avviso per gli astemi e pure per i moderati è di lasciare da parte la nobiltà poiché di nobile nulla v’è; l’opera cosiddetta è – circonvoluzioni mitologiche a parte – sine nobilitate. Snob, come quei tali che bevono a scrocco il caffè sollevando, quasi fosse un vezzo aristocratico, il mignolino con l’unghia lunga e curata.
Snob esattamente perché l’installazione pretende d’esser qualcosa che non è. Qualunque significato intimo, recondito, coperto, oscuro, segreto, arcano, iniziatico eccetera eccetera gli si voglia attribuire, quel che appare all’occhio del visitatore non è altro che la tangibilizzazione in formato maxi di un sogno proibito, innaturale e insensato. Ma, direte voi, quante volte i sogni non hanno senso? Tal quesito è valido poiché i desideri, inquanto tali, possono essere astrattamente perversi e basta, senza dover fare appello ad alcuna tradizione storica, nemmeno se recuperata e tradotta in chiave carnascialesca. Eppure, in questo caso, la vividezza del desiderio lo strappa al mondo onirico anche se pare brutto metterla in questi termini, così si ricercano origini patrizie al fantoccio creativo per dare un aspetto meno prosaico alla banalità. Che tal rimane tuttavia.
L’unico dato ovvio di questa discutibile versione di obelisco – in una lettura espressamente esoterica – è l’anelito estremo di non finire obliati, giusto giusto come le immagini che transitano nella Wasteland – La terra dei sogni perduti, di Giorgio J. Squarcia:
La speranza che qualcuno si ricordasse di loro. Era, quello, l’unico modo per accettare la loro sorte di dimenticati. L’unico modo per resistere.
Io aggiungere per esistere nella logica del purché se ne parli. E sia pure se, ahivoi, non v’è stato consentito di risolvere l’Edipo; l’arte, però, a parer mio, è un’altra cosa. Il termine deriva dal latino ars e ha la stessa origine del verbo arare che richiama al muoversi in maniera composta verso qualcosa, evidentemente con la finalità di produrre e non di copiare sgraziatamente. Ma è solo il parere di chi non s’appassiona, intendiamoci.
E, ancora per intenderci, non sto nemmeno a confrontare, come ad alcuni è venuto naturale fare, questo/a Pulcinella infeconda – sterile poiché unicamente riconducibile a se stessa senza significato ulteriore alcuno – con le varie statue raffiguranti la maternità, in Italia e in giro per il mondo, ed altre raffigurazioni femminili più o meno considerate scandalose. Il problema di un raffronto non si pone perché la raffigurazione della maternità è emblema di accudimento senza possibilità d’equivoco, che, detto diversamente, significa mettere la propria vita al servizio di una vita nuova e altra da sé, per quanto a sé legata, che è quanto di più sacro e meraviglioso possa esistere. L’evocazione di un fallo eretto non può nemmeno lontanamente accostarsi a tale immagine e, al massimo, può richiamare al godimento, all’esser pronti a dar battaglia o a delimitare il territorio di pertinenza (esattamente come fanno certi primati e certe tribù, come i Fore della Papua Nuova Guinea). Ma, a parer mio, tale raffronto non ha ragione d’esser contemplato – se non, unicamente, per evidenziarne il gap artistico – pure per un’altra ragione, ovvero perché ciò che emerge dalla costosa installazione del/della Pulcinella non è una fisicità più o meno esplicita, di cui l’arte è piena, ma l’enucleazione e l’esorbitazione della fisicità stessa, e in ciò di un elemento inequivocabilmente evocativo, come già detto. Peraltro, pensato come tale nel tentativo, neanche tanto velato, di far passare l’idea che, se qualcuno ci vede qualcosa di scandaloso, è perché intimamente l’osservatore è avvinto dallo scandalo, non è libero, è vittima di un complesso. Le cose stanno messe, in realtà, in maniera molto differente.
Abbiamo tutta una tradizione italica di raffigurazioni apotropaiche che interessa organi tanto maschili quanto femminili ma che appartiene ad una cultura e ad una società che si è evoluta, vivaddio, e non regala più manuficas ai bebè né tintinnabula da appendere in “soggiorno” per richiamare la buona sorte.
Dunque, l’installazione è, alla fin fine, pretestuosa e pure fuori tempo di parecchio. Ammenoché dietro non ci sia il tentativo di volerci scaraventare nuovamente nel paganesimo, stavolta in stile OMS la quale, già dal 2011, ha cominciato a lavorare per convincerci che la biologia sia un abbaglio, che certi termini non sia corretto utilizzarli e che ognuno è quello che si sente di essere. Così va a finire che anche un’installazione fallica in pubblica piazza pretende di rappresentare un orgoglio della tradizione culturale locale e non, piuttosto, una di quelle derive che nell’oggi vorrebbero farci chiamare le cose con un nome diverso così che noi non le si possa mai prendere per il giusto verso e mai di esse farci un’opinione chiara e definita. E non è superfluo sottolineare che a quest’ultimo scopo serve l’”abito” arcobaleno che fa parte integrante dell’opera di Pesce e pure il cuore trafitto, talmente marginale che nemmeno il titolo dell’installazione vi fa riferimento; perciò è messo là a depistare i bevitori di cui sopra. Ma ancora vi fossero dubbi, lo spettacolo che ha accompagnato l’inaugurazione dell’esposizione “artistica” ha levato ogni dubbio possibile circa l’intento dell’opera; lontana assai dall’esprimere affetto per la città, ha messo in scena una musica (implicitamente forse una danza?), evidentemente richiamando antichi rituali pagani, peraltro con un incontrovertibile riferimento all’onirico – al quale abbiamo già fatto riferimento più sopra – determinato dal ritmo ipnotico del Bolero di Ravel. Insomma, le letture a più livelli si sprecano assai e se l’opera in sé non è esattamente un capolavoro artistico è certamente un tentativo costosissimo di capolavoro dell’equivoco.