di Ingrid Atzei

Quando si consumò l’attentato a Robert Fico, era il 15 maggio 2024, scrissi un articolo che restò nel cassetto in attesa di essere perfezionato; nemmeno il tempo di considerarlo pronto che si schiantò al suolo l’elicottero a bordo del quale si trovavano Raisi, il suo ministro degli esteri e il governatore della provincia dell’Azerbaijan. Così, in attesa di saperne di più, misi da parte il mio articolo. Passò poco meno di un mese e il ministro della Difesa Crosetto, di ritorno in aereo dal ministeriale NATO di Bruxelles, dovette atterrare con estrema urgenza perché in cabina si stava spandendo del fumo. Dieci giorni dopo, un poliziotto della scorta di Orban venne travolto ed ucciso da una donna “distratta”. E, qualche giorno fa, l’accadimento più clamoroso di tutti: l’attentato all’ex Presidente USA e candidato in corsa per il secondo mandato, Donald Trump. Perché metto questi accadimenti in un unico elenco è facilmente intuibile: tutti questi leader, ognuno a modo proprio, possono essere racchiusi all’interno del grande insieme delle minacce all’Ordine Mondiale. Anche Crosetto? Sì, pure lui – che leader, in effetti, non è -. Ma è necessario inserirlo perché al vertice NATO di maggio aveva osato dire no a Stoltenberg relativamente all’invio di nuove armi in Ucraina.

Il recentissimo attentato occorso all’ex Presidente Donald Trump mi ha fatto riprendere in mano l’articolo e mi  ha riportato alla mente quello che mi diceva, qualche tempo fa, un amico, interpretando peraltro un pensiero diffuso, e cioè che ha deciso di non andare più a votare perché i politici «sono una banda di bastardi, incompetenti, viziati e criminali». Insomma, non l’ha toccata piano e, d’altra parte, perché avrebbe dovuto? Sul territorio, quello vivo calpestato dalle persone vere che, dì dopo dì e dalla mattina alla sera, si confrontano con le difficoltà quotidiane c’è un tale malcontento che l’unico motivo per il quale esso rimane confinato ai fegati avvelenati di noi tutti è che non siamo preparati per difenderci. Pensateci; fin dalla scuola dell’infanzia c’insegnano ad aiutarci e ad evitare di prevaricare sul prossimo. E va tutto bene, intendiamoci. Va tutto bene finché non arriva il bullo di turno, quello che cooperazione e solidarietà glieli hanno – forse – anche insegnati ma il messaggio s’è diluito presto con litri di bile in avanzo rispetto alla popolazione media. E guardate che il bullo lo sa che ha davanti uno che non si sa e/o non si può difendere (magari perché così è stato sotterraneamente deciso), altrimenti neanche ci proverebbe a provocare e a prevaricare. Evidentemente, Trump, che ha il piglio spavaldo dell’uomo d’affari, con le sue posizioni meno belliciste, ha fatto girare gli ammennicoli a qualcuno del piano interrato con la cistifellea discretamente ingrossata. Qualcuno di quelli che, generalmente, piegano ai propri diktat quei politici che oramai hanno scoraggiato il mio amico.

La nostra società, dunque, ai piani bassi, è composta in massima parte da persone che non hanno gli strumenti per difendersi dall’autorità, giacché il prevaricatore, in quanto percepito in posizione di vantaggio – non sapere dove fisicamente si trova lo colloca di diritto in tale posizione -, assume connotati d’autorità, che l’autorità ce l’abbia o meno. Poi che agisca manu propria o per interposto bullo di facciata è una differenza che non cambia la sostanza dei fatti ma fa la differenza ai piani medio-alti, quelli di Fico, per esempio, ma anche di Trump.

‘Sta premessa a quale scopo vi chiederete voi? È presto detto: questa premessa è stata necessaria per introdurre il presupposto che per difendersi occorre conoscere le armi del nostro antagonista e pure il terreno sul quale di preferenza si muove. E, soprattutto, che non bisogna mai abbassare la guardia perché fuoco e folli, in certi contesti, girano con la medesima frequenza. Proprio con questo intento, vorrei parlarvi di Strategie per una guerra mondiale: dall’11 Settembre al delitto Bhutto scritto da Pino Cabras a 7 anni da quell’11/9 che ci ha progressivamente abituati all’impotenza e alla paura.

In questa sede, mi piacerebbe concentrarmi sui preziosi insegnamenti strategici che il volume offre, tanto più se letto a distanza di così lungo tempo dai fatti e dalle relative analisi e, nondimeno, perché ci consente di leggere con una logica immediatamente lungimirante quest’ultimo nient’affatto inaspettato attentato. Non mi concentrerò, perciò, sugli accadimenti di Ground Zero, che nel volume sono documentatissimi e piacevolmente illustrati; perciò, chi fosse interessato ad un’interpretazione obiettiva e supportata da numerose prove, resterà certamente soddisfatto dalla lettura. Io, piuttosto, attingendo copiosamente dal testo, tenterò di dare risposte analitiche a tre differenti domande, dopo aver definito il terreno all’interno del quale ci muoviamo: la società aperta. Proverò me stessa in questo tentativo per mettere in evidenza condotte strategiche ripetute e meccanismi di risposta automatici e, pertanto, prevedibili che spiegano la nostra cedevolezza al sopruso/abuso.

Definiamo società aperte quelle nelle quali, attraverso l’uso delle soft powers (identificabili brevemente come armi di persuasione, non necessariamente non violente, in alternativa alle armi belliche o hard powers), si sradica ogni retaggio identitario (esitante nella fluidificazione) per far tabula rasa dei punti di riferimento dei popoli onde poterli sostituire con l’impersonalismo tecnico o, meglio, teo-cnico-cratico, neologismo sgraziato ma sincretico con il quale io mi riferisco a tutte quelle forme di governo che si presentano come onnipotenti e fondate su una scientificità data, incontestabile e calata dall’alto, ovvero un’ascentificità dal carattere perentorio.

Come è facile immaginare, le implicazioni delle società siffatte sono individui monadici e apolidi, nonché comunità non sociali descrivibili come aggregati di soggetti/oggetti accomunati da un’omologante generalizzata confusione che rende possibile qualunque pseudo-radicamento utile all’azione globalpolitistica, ancora una volta un mio neologismo determinato dall’urticante pretesa tipica di certi contesti di trasformare miliardi di cellule apolidi in un bizzarro organismo dalla cittadinanza planetaria; ovvero quella cittadinanza senza radicamento identitario e di tipo cumulativo (di qui la cittadinanza a punti) piuttosto che associativo/solidale.

Dato l’utilizzo dell’aggettivo “aperta”, in tale società si ritiene impossibile covare complotti, un po’ come se apertura corrispondesse a trasparenza. Il presupposto è, ovviamente, errato considerato l’ampio e spregiudicato uso delle soft powers, già di per sé manipolatorie, e considerato che l’apertura si caratterizza per un flusso o la sua possibilità; cosa accada di questo flusso ed oltre esso non è detto che appaia chiaramente. Dunque, è da considerarsi persa in incipit la trasparenza.

Fin qui, abbiamo delineato il terreno sul quale ci muoviamo, che è, appunto, aperto, pertanto molto variegato e potenzialmente opaco, perciò rifugio sicuro d’arcani. Ora, attraverso una sequenza di domande, vedremo strategie e mezzi sul campo.

Domanda numero 1:

di cosa si compone un complotto, tanto più se interno all’apparato statale?

Trattandosi di complotto, ovviamente, come c’insegna l’etimologia, si compone di complici. Questi sono da rintracciarsi dove girano i soldi, tanti soldi! E, dunque, nei complessi militari, industriali e finanziari. Tra i complici avremo gl’insospettabili degli inside jobbers (quelli che si occupano del lavoro sporco) direttamente collegati ai servizi segreti, gli outsiders inconsapevoli (alle volte, banalmente pure attori), gli agenti retired (quelli che potrebbero sembrare miti pensionati ma non si limitano a giocare a bocce), i whistleblowers (ovvero delatori utilissimi nei regimi di matrice distopico-dittatoriale) e i gatekeepers (letteralmente i “portieri” delle argomentazioni contronarrative).

Domanda numero 2:

di cosa fanno uso i servizi segreti per condurre i golpe di nuovo tipo; quelli, per intenderci, volti alla presa di potere di uno Stato mondiale?

Iniziamo col dire che si tratta di un processo che si dispiega in termini diacronici, costellato di accadimenti distruttivi ed attentati, a volte con posologie omeopatiche che non restituiscono la gravità dei potenziali effetti collaterali che si dispiegheranno nell’arco di generazioni. Pino Cabras ci spiega che queste operazioni lunghe, nel gergo dell’intelligence, prendono il nome di sheepdipping, letteralmente inzuppare la pecora. Questo perché, al fine di liberare le greggi dalle infestazioni di parassiti, esse venivano bagnate con un potente insetticida che, in seguito, causava danni agli animali ed inquinamento delle acque. Da ciò comprendiamo bene la spiegazione che troviamo nel testo:

[…] una lunga operazione che si svolga nel corso degli anni e faccia compiere ad una pedina, inconsapevole vittima sacrificale, gesti che solo in seguito verranno capiti […]

Al secondo posto nelle attività strategiche troviamo l’utilizzo, per compiere attentati, di cellule in sonno, individui apparentemente miti, ordinari e talmente poco accorti da seminare generosamente prove della loro malafede così che non s’abbia nemmeno a dubitare di mani complici.

Al terzo posto troviamo le discutibili psyops, variegatissime operazioni rientranti nel dominio cognitivo e, sovente, a carattere terroristico, volte a suscitare nella popolazione un senso d’insicurezza che sia la base del cambio di regime auspicato. Queste operazioni, indebolendo le capacità critiche dei popoli, accentrano poteri aumentati (ab-normi) sul leader di turno che li utilizzerà per imporre leggi e veicolare abitudini inaccettabili in assenza di una grave minaccia.

Al quarto posto è indispensabile fare riferimento alla tecnica dell’inondazione di notizie. In pratica, si tratta di veicolare a cascata informazioni distorte che non informano e, piuttosto, formano il pensiero a ragionare in un’unica direzione, divenendo per questo armi improprie o una vera e propria merce per la quale comunicazione giornalistica, pubblicitaria e d’intrattenimento convergono nelle mani del potere politico ed economico di modo da confinare le

voci dissonanti […] nell’irrilevanza statistica.

Ottenendo, di fatto, una censura.

Domanda numero 3:

cosa rende possibile il golpe?

A questa domanda potremmo facilmente rispondere così: una grande narrazione. Nelle parole di Pino Cabras:

Quando affrontiamo le rappresentazioni politiche di oggi, ci servono più che mai le categorie del cinema e del teatro.

La narrazione ha, dunque, la funzione di creare

               Pezzi di memoria che costruiscono l’oblio. […] la TV non fa memoria ma ‘memoria selettiva’…

Dal testo citato, attraverso la dettagliatissima analisi proposta per interpretare in chiave critica sia l’attentato dell’11 settembre che altri accadimenti più o meno opachi della nostra storia mondiale nella quale ora potremmo far rientrare anche l’attentato a Donald Trump, è possibile enucleare un elenco d’ingredienti narrativi che lavano i fatti, dilavano le prove, scoloriscono scomode presenze ed infeltriscono le risorse critiche degli ignari acquirenti di detersivi di un’immensa lavatrice di capi senza etichetta ma griffati.

Dunque, ecco, di seguito, cosa occorre dosare con sapienza, a volte quanto basta, a volte eliminando o sostituendo qualche ingrediente, per impalcare il palazzo delle menzogne.

  1. Prevedere cambi di agenti di scorte, improvvise quanto incoscienti sbronze ed altre leggerezze fino ad arrivare a quanto evidenziato nel testo da Pino Cabras, ovvero delle esercitazioni congiunte e concomitanti con l’evento critico al fine di distribuire risorse di soccorso e sicurezza in altrove neutri, offrire una copertura per le operazioni critiche e degli escamotage plausibili per smentire i dubbiosi solfosmisti. (Questa parola non esiste, non ancora almeno. Me la sono ricavata per uno scopo preciso che vi spiegherò tra breve; per ora portate pazienza). Ancora, tale stratagemma è utilissimo per infiltrare mafiosi e terroristi tra gli uomini in uniforme, per creare confusione tra realtà e finzione e per depistare.
  2. Spaventare immensamente la popolazione. Come si procede?
  3. Innanzitutto, si demonizza la parte antagonista,[1] che si tratti di un leader politico, di partiti/militanti o potenziali solfosmisti. Chi sarebbero, a mio parere i solfosmisti? Il termine nasce dall’unione di sulphur=zolfo e osm=fiutare, ovvero coloro che fiutano la puzza di bruciato e, non paghi di veder macerie malamente descritte, vogliono capire cos’ha scatenato l’incendio. Perché ho ritenuto necessario coniarmi questo nuovo termine? Perché, da quando ci è stato scippato il vero significato e la logica relazione tra complotto/complottista e cospirazione/cospirazionista, siamo rimasti virtualmente orbi di un concetto incontrovertibile e parimenti ci siamo resi conto d’esser privi di un termine che indicasse coloro che si pongono con piglio critico dinnanzi ad un accadimento clamoroso al quale consegue un cambiamento nelle abitudini di vita altrettanto clamoroso, pervasivo e più o meno liberticida.
  4. Poi si crea la crisi. Nelle parole di Giulietto Chiesa:[2]

[…] solo obiettivi giganteschi possono essere compatibili con crimini giganteschi. Per gli uni e per gli altri non sono indispensabili personalità gigantesche.

In sostanza, i golpe mondiali hanno necessità di eventi clamorosi che devono essere visti in tutto il mondo e devono rappresentare una minaccia globale, dal momento che sono destinati a cambiarne le sorti. Ora, se uniamo le attività sotto copertura, già viste al punto 1, con obiettivi e crimini giganteschi possiamo facilmente descrivere il seguente percorso: imminente default di uno Stato egemone – creazione di una minaccia globale impegnando i servizi segreti in missioni miranti a stimolare reazioni nei gruppi terroristici o presunti tali (fondamento della guerra giusta) – dichiarazione di stato di emergenza attraverso il quale disporre di poteri aumentati – utilizzare lo stato d’eccezione per giustificare misure liberticide e, diversamente, irricevibili  (rafforzamento del potere esecutivo e base per la guerra preventiva) – realizzazione del golpe mascheratosvolta autoritaria (di uno Stato, più Stati assieme, diversi Stati in sequenza) – strategia internazionale della guerra infinita.

  1. Si diffonde la grande Si re-inventano termini o se ne ridefinisce il senso per creare confusione, disorientamento e difficoltà di azioni controffensive (l’esempio classico è quello del cospirazionismo che da pratica volta al rivolgimento di leader e regimi è divenuto sinonimo di visionari); si crea il nemico da odiare (con la demonizzazione, l’accusa di terrorismo o “fiancheggiamento”. Un esempio è il Parlamento Europeo che il 23 novembre di due anni fa dichiarò la Russia sostenitrice del terrorismo). Di seguito, poiché il nemico appartiene all’outgroup, ovvero il gruppo del quale non si fa parte, si fortifica il senso di appartenenza al proprio gruppo (ingroup) e si giustifica l’azione “patriottica”.[3]

A tal proposito, vi riporto una citazione di George Lakoff che trovate nel volume di Pino Cabras:

Le guerre finiscono quando gli eserciti sono sconfitti militarmente. Il terrore è uno stato emotivo; non puoi sconfiggerlo militarmente.

E, più oltre, l’autore spiega

Il terrorismo non è un nemico ma una tecnica di combattimento. Se, dunque, è impossibile sconfiggere il terrorismo, è però possibile usare all’infinito la retorica della ‘guerra al terrorismo’ per giustificare – con un’efficacia che ha bisogno di alimentarsi di continui allarmi – la continuazione di operazioni militari su molti fronti.

  1. Puntare sull’apatia dei popoli determinata, da una parte, dal disamoramento verso la politica (ricordate il mio amico?) e, dall’altra, dalla poca attenzione per i piccoli segnali di scricchiolii che alterano il normale processo democratico e che sono possibili previa modesta infiltrazione di apparati statali deviati, lobby spregiudicate all’interno dello Stato di facciata e l’accordo di entrambi con il comparto militare-industriale.
  2. Acquisire il controllo monopolistico dell’informazione, quindi inondare, censurare, disinformare e confondere agevolando un forte battage
  3. Eliminare persone che occupano posizioni segrete e specializzate (ad esempio nel comparto Difesa, aeronautica o guerra elettronica).
  4. Investire grandi quantità di danaro nel “tappare le bocche” ed evitare cause procedimentali scomode.
  5. Prevedere budget praticamente illimitati in armi atomiche, chimiche e batteriologiche.
  6. Mettere in conto di «uccidere una discreta quantità di persone».
  7. Alimentare la tensione in chiave dello scontro tra civiltà.
  8. Far passare l’equazione perdita di libertà=sicurezza.
  9. Predisporre il coinvolgimento diretto dell’intelligence, evidente per il fatto che chi viene accusato di terrorismo, attentati e altri crimini non avrebbe sufficienti competenze per agire (come Thomas Matthew Crooks, per intenderci).
  10. Non perdere occasione per coltivare la paura su scala globale con qualunque mezzo.
  11. Reclutare per attività sovversive anche cittadini locali.
  12. Affidarsi a spin doctors che trasformino la politica in fiction e che siano in grado di spettacolarizzare le notizie in funzione dell’obiettivo da raggiungere.

Eccoci giunti alla conclusione di questa lunga carrellata di strategie e mezzi di prevaricazione che, inesorabilmente, confluiscono nell’abusatissimo quanto ipocrita “attacco alla democrazia”, l’ammonimento che ai piani sotterranei, per interposti piani alti di facciata, si giocano con la nonchalance di un poker d’assi sventagliato sul tavolo da un baro. Nelle parole di Pino Cabras

Mentre si combatte una ‘guerra infinita’ […], la democrazia prende seri colpi da un’ignoranza dei fatti voluta e cercata.

La democrazia, quella vera intendiamoci. Mentre l’ignoranza voluta e cercata è quella veicolata dai piani sotterranei con i proclami d’attacco. Dunque, la guerra è infinita, sognate la pace.

 

 

[1] Interessante a questo proposito la storia del COINTELPRO, programma di controspionaggio, demonizzazione ed infiltrazione portato avanti dall’FBI tra il 1956 ed il 1971.

[2] Parole tratte dalla prefazione al volume 11 settembre: Bush ha mentito. Il documentato atto d’accusa del guardiano delle Twin Towers di Philip J. Berg e William Rodriguez, riportato in Pino Cabras op. cit.

[3] Emile-Auguste Chartier riteneva che in tempi di pace ci si può opporre e ci si oppone ai governanti, ma quando si tratta di andare in guerra non è ammesso che il cittadino vi si opponga. E Sebald Rudolph Steinmetz considerava la guerra un collante tra gl’individui di uno stesso Stato.

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